Quello che non c'è, [28/04/09]Musica e penna

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Aslinn
view post Posted on 8/6/2009, 14:25




Rating: 16 anni.
Tipologia: One-Shot.
Lunghezza: 2149 parole, circa 3 pagine,1 capitolo
Avvertimenti:Lime, Linguaggio Colorito
Genere: Triste, Drammatico, Introspettivo.
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Credits: La canzone da cui trae spunto il testo, così come il titolo, è “Quello che non c’è” degli Afterhours.
Note dell'Autore: Le informazioni sulla città assediata sono volutamente vaghe, forse alla fine si capirà il perché.
Introduzione alla Storia: “Curo le foglie, saranno forti/ se riesco ad ignorare che gli alberi son morti”.

Quello che non c'è



Un rumore assordante, ennesimo testimone di un mondo in sfacelo, mi fa distogliere per poco lo sguardo dalle mie dita sudate. Lei è sul letto, distesa morbidamente sulle lenzuola incolori. Qui tutto non ha colore, la luce è un taglio in alto sulla parete di fronte, con una grata a difendere dal male. Stanotte abbiamo fatto l’amore come fosse l’ultima, come ogni notte facciamo. Seduto sul bordo del letto, in boxer e sudato, mi rigiro un vecchio foglio tra le mani. L’immagine diluita di un bimbo sorridente, dietro degli alberi e una casetta di legno, un rifugio di montagna. E ripenso a lui, che teneva tra le mani una pistola fatta delle proprie dita, con una bandana rossa sulla bocca, che sparava proiettili invisibili contro nemici immaginari. Era temerario, non coraggioso, perché allora non c’era misura di pericolo. Potevi essere un eroe e salvare tutti, o il più oscuro demonio divoratore d’anime. Mantello o cappello, ali nere o bianche, fucile o spada. Tutto più semplice.
Mi volto è lì la vedo, la mia arma color carbone e scintillante che sembra brillare di luce nera anche al buio della stanza. Mi tremano le mani, le sento sporche, di sangue e di lacrime, di urla e pianti, di morte. Devo sciacquarle, ma l’acqua pulisce la mia pelle, non la mia anima, che resta macchiata d’olio nero pece.
Il lavello schizza liquido giallognolo che porta con sé la ruggine delle tubature, il sapore di ferro mi invade la bocca e il naso, mi annebbia per una attimo il cervello. Poi, dopo pochi sussulti, l’acqua smette di correre. Hanno chiuso le tubature per la notte. Ma qualcos’altro bagna il mio volto, e ha un sapore peggiore del ferro. Credo siano lacrime, che mi graffiano la pelle.
Poche ore e la sirena suona: è tempo di armarsi, tra meno di sessanta minuti dovrò essere in strada a uccidere e massacrare.
La lotta è ricominciata, come ogni mattina, come a ogni respiro, come a ogni pensiero.
Bacio la sua schiena, mentre riprende a muoversi nelle lenzuola, quasi subito vigile.
“A stasera, Marilyn” le sussurro.
Mi guarda seria, come sempre. Lei deve uscire per il suo lavoro: il controllo dei confini cittadini, per impedire che i nemici entrino ancora.
“A stasera” mi risponde, e so che non ci crede.
Non vuole sperare che quando il sole calerà noi saremo ancora vivi.
Ma a me rimane solo questo.

Il fumo mi entra nei polmoni malgrado la benda umida che mi copre metà volto. La polvere sembra insinuarsi ovunque, sotto i vestiti, sotto la pelle. Il grigio della divisa non riesce a confondermi con l’ambiente distrutto della città, dove la gente vive sotto terra e gli edifici sono solo macerie che ospitano nemici. Scricchiola quello che era asfalto sotto i miei scarponi, brucia un sole lontano sulla poca pelle esposta ad esso, troppo bianca, troppo abituata all’oscurità confortevole e terrificante della notte. Nubi artificiali annebbiano il cielo e sembrano essere ovunque, come se questa non fosse altro che una città sospesa sul nulla.
Un urlo mi fa voltare incautamente e vedo un ragazzo che mi indica qualcosa. Torno a guardare davanti a me, ma non vedo nulla. Un tremendo ruggito squassa l’aria e mi rimbomba nello sterno come quella musica che da troppo ormai non ascolto. Mi volto a cercare il ragazzo, ma è già scomparso. Passi pesanti rompono la strada. Mi preparo a sparare, ma loro si fermano improvvisamente, richiamati da un pianto fanciullesco. La bestia corre via, verso quel suono. E io cado in ginocchio, incapace di mirare in questa nebbia e fermarla.
Troppo lontana.

Il buio piomba insapore sulla città, ancora, come sempre. Mi incammino verso il mio scantinato, attento che nessun nemico mi segui. Solitamente, durante la notte non sono attivi, ma il momento del crepuscolo è delicato. Prima di entrare nell’ascensore nascosto da mura spesse, mi volto a scrutare il cielo. Lì, in lontananza, vedo la luce pallida di una luna che non è astro, ma solo un faro dal quale provengono le sirene che scandiscono la mia vita, la nostra grama esistenza.
L’ascensore traballa fino al mio piano sotterraneo. Dentro alla gabbia metallica c’è un ragazzino dal viso sporco e gli occhi azzurri, fin troppo grandi per tutta quella tristezza che li anima. Si butta un bastone di ferro alle spalle e lo trascina stanco insieme ai piedi nel corridoio. Entra in una porta e scompare.
Lo imito e nell’appartamento sento subito l’odore di casa, di lei.
“Marilyn” chiamo, mentre mi spoglio e mi butto sul letto, per fissare il soffitto.
Sento l’acqua della doccia che scorre a intermittenza.
E insieme a questo stillicidio martellante un altro suono, quello delle mie fantasie, della mia immaginazione. Avrei voluto fare lo scrittore, ma il mondo non me lo ha permesso. Da che ho compiuto tredici anni i nemici sono giunti distruggendo tutto ciò che avevo, e relegandomi qui.
Ma ora vedo le immagini di mille mondi e di mille colori, e mi sembra di non scorgere nessuna forma. Un caleidoscopio mi precipita nell’anima e sento tutto il corpo formicolare.
Martello. Martello. Martello. Immagini su immagini, suoni, colori. Troppo per me.
Mi stringo il cranio con una mano e mi drizzo a sedere. Un urlo mi graffia la gola. Sembra che mille eserciti mi percuotano le tempie e ogni osso che ho a proteggermi il cervello. Mani bagnate mi strappano via dai capelli le mie che li hanno stretti fino a sfibrarli e strapparne qualcuno.
“ Smettila! James! Smettila!” mi dice una voce.
Apro gli occhi e vedo lei, ma mi viene da vomitare e tutto lo stomaco mi sembra estratto via dalla bocca. Piango freneticamente e vengo scosso da tremendi spasmi. Poi sento qualcosa pungermi il braccio e il mondo si annebbia.

Mi sveglio, lo so subito che sono vigile, malgrado non lo sia davvero. Mi sento intorpidito, e credo di star sorridendo senza motivo, e i muscoli…quelli non mi rispondono, come se le comunicazioni fossero rallentate o addirittura interrotte.
Riesco tuttavia a voltarmi.
Lei è stesa affianco a me nel buio e dorme in modo agitato. Sul comodino le luci di un orologio digitale mi lampeggiano rosse sul volto, ma non riesco ad attribuire a quei simboli un senso. Tuttavia vedo chiaramente una boccetta sul mio materasso…una boccetta di liquido consumato…di liquido nelle mie vene…
E prima che tutto si annebbi, riesco ancora a fare un pensiero.
Che strano..io non ho un orologio digitale.

Riapro gli occhi poche ore prima dell’alba, o quella che credo sia tale.
Marilyn mi ha svegliato. Mi guarda e sembra sia sul punto di piangere. Mi bacia il petto.
“ Oggi uno di loro mi ha sfiorato il braccio” mi dice, senza guardarmi.
Il suo amore, il suo modo di amare con tenacia, mi fa sentire leggero, mi scioglie il cuore. O forse è la droga a farlo? Ma la fantasia ora sembra lontana, ora che la realtà ha un senso troppo forte, ora che mi bacia l’addome e ancor più giù. Credo che per me sia insensato anche questo…credo che sto perdendo il gusto.
Facciamo l’amore e il piacere per un attimo mi trasporta fuori dal mio corpo e da questa situazione…
Alba…non credo sia giunta l’ora d’essere felice…ombra e luce non hanno alcuna distinzione, non qui. Torno alla realtà e il piacere sfuma velocemente, troppo per conservarlo. Lei piange aggrappata al mio braccio, perché questa gioia potrebbe essere l’ultima.
Non mi rassegno a cercare la luce…
“Non devi piangere” le dico.
Lei si alza a sedere con uno scatto improvviso.
“Non dovrei? Cazzo, James! Questa non è vita! Domani non ci saremo!”
“E invece sì! Pensa che potremmo esserci, che potremmo essere felici, che potrebbe finire tutto.”
“No! Come puoi dirlo? Non abbiamo noi il controllo sulla nostra vita!”
E’ questo che vuole, il controllo, la possibilità di scegliere…ma a me non serve, finché nella mia mente ogni cosa può essere come voglio, come quando ero bambino e giocavo ad essere Batman. Sì, posso ancora esserlo.
La stringo a me malgrado mi tiri pugni per impedirmelo…perché, sì, la amo e senza di lei non posso vivere. Il fatto che Marilyn sia qui testimonia che la speranza esiste.

Vuoto. Il mio appartamento è vuoto. Il letto disfatto dove ieri tenevo stretta Marilyn. La doccia dove si era lavata. Le sue cose ancora sparse ovunque. Ma lei non c’è. Crollo, credo di non essere in me. Mi ritrovo nella vasca, bagnato, un ago nel braccio e la testa rivolta al soffitto.
Sperare di ritrovarla e vedere che non c’è mi ha distrutto l’anima.
So che mi rialzerò da qui. E mi maledico per questo. Sono morto più di cento volte, e le cicatrici nel mio petto non si contano neanche. Vorrei morire definitivamente, ma non ci riesco. Spero, spero, spero.
Le lacrime sembrano non esserci più, ma dentro mi hanno annegato il cuore.
Lei è morta.

Credo di vedere delle luci fluorescenti, in una scatola multicolore. Proiettano falsi miti sulla mia faccia. Seguo le immagini che si insinuano in me.
Non ho mai visto simili colori.

Ho realizzato che non posso essere felice. Per esserlo dovrei ignorare il mondo che si disgrega attorno a me. E senza speranza, senza immaginazione, senza amore non posso farlo. Tutte queste cose sono solo illusioni, alle quali non posso non aggrapparmi. Perciò non sarò mai felice, come quel bimbo che sparava al nulla. Il letto è sporco sotto il mio corpo che sembra decomposto. La droga, che non so da dove venga, continua a fluirmi nel braccio. Mi fa star bene, mi fa dimenticare, mi fa morire. Ma rivivo sempre miracolosamente, maledettamente.
Posso ancora sperare di sopravvivere, se mi rifugio nella mia mente, se riesco ad ignorare che fuori tutto cade, che la carcassa di Marilyn nello sfiorire della bellezza è esposta alle zanne dei nemici, che forse quel bimbo con gli occhi azzurri e tristi sarà già morto esposto alla furia omicida degli assassini, magari divorato da qualche disperato.
La sirena suona.
Prendo le armi, mi vesto, ed esco in superficie.
Mi copro bene la bocca.
I miei passi sembrano leggeri, forse è la droga, forse è la disperazione.
Neve di piombo intorno a me. Granate, proiettili forse, morti per strada. Sembra tutto lontano e continuo ad avanzare.
Un essere si avvicina. Esce dalla nebbia, con passi poderosi che aprono piccole crepe nella strada. Un ringhio acuto lo preannuncia. Ma io mi fermo e non mi muovo. Non riesco nemmeno ad alzare il fucile e puntarlo contro di lui. Mi guardo poco sorpreso le mani e poi ancora la figura che avanza con sinuosi movimenti da cacciatore esperto. E mi accorgo che non voglio salvarmi.
Penso al mostro di cui non ho più paura, e un sorriso si apre sul mio volto.
Ora lo vedo: bianco come nulla, mi abbaglia gli occhi, i canini rossi di sangue già versato. E’ mostruoso, a quattro zampe, con orecchie appuntite. E’ muscoloso e sembra fremere tutto come il grembo inquieto della terra.
Butto a terra l’arma e apro le braccia, invitandolo a colpirmi. Mi inginocchio e guardo il cielo. Sorrido e rido. E un raggio di quel sole che sembrava morto mi abbaglia gli occhi. L’Alba. Lui si avvicina e mi salta addosso. Mi stritola in un dolce abbraccio, mi sento sicuro, mi sento protetto. Mi sento felice.

Il paziente non si dimenava più, era incosciente. Bava bianca e schiumosa, mista al rosso del sangue delle gengive infiammate, gli colava agli angoli della bocca. Il cuore si era fermato, e già il medico e il suo assistente si preparavano a praticargli la rianimazione. Gli strapparono il pigiama bianco, mentre qualche buona infermiera spegneva la televisione.
Gli stessi medici che gli avevano somministrato troppi tranquillanti per endovenosa si accingevano a riportarlo a quella vita che il paziente, James Mattew, non voleva più. In seguito all’abbandono della ragazza, che non se la sentiva più di andarlo a trovare, le sue condizioni psichiche erano peggiorate.
“Carica” un’occhiata all’assistente e un cenno “libera!”
Mi sono fottuto da solo, ma ne è valsa la pena. Ora so che la gioia è vera, ed è meravigliosa.
“Alba…”

“Cazzo, Liam, sbrigati” urlò il medico all’assistente impacciato, alle prese con la sua prima rianimazione. “Carica…libera!”
Il corpo magro scosso da un nuovo fremito.


Mi brucia il volto. Apro gli occhi e vedo un immenso bianco sconfinato. Edifici di cristallo circondano il mio corpo. Ed è bellissimo. Forse questo è il Paradiso. O una nuova vita.

Aprì gli occhi, e il medico ringraziò il cielo per la colpa dalla quale lo aveva sollevato.
“Per stavolta ci è andata bene…”si lasciò sfuggire.
Guardò l’orologio digitale sul comodino: 11:30, e considerò che a quell’ora il ragazzo poteva essere morto, poi sarebbero arrivati i legali, le accuse, gli avvocati, il giudice, e il carcere o un somma considerevole di denaro e di stima professionale persi, forse anche l’ospedale chiuso.
Il ragazzo sorrise.
“Quello che non c’è…è bellissimo.”
 
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