Sangue e Polvere, [4/07/08]Tempi di Guerra

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Drath
view post Posted on 20/9/2008, 20:32




Rating: 16 anni
Tipologia: One-Shot
Lunghezza: 1966 parole, 4 pagine e mezzo di word, capitolo unico
Avvertimenti: Character Death, Non per stomaci delicati, Violenza,
Genere: Generale, Romantico, Introspettivo, Azione, Avventura, Guerra, Storico.
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Credits:
Note dell'Autore: Nasce come ideale prologo a un romanzo o racconto più lungo, ma può essere letto anche come racconto a sè stante.
Introduzione alla Storia:
Ci troviamo agli inizi del '500. Un castello in Trentino è messo sotto assedio da milizie mercenarie italiane e tedesche ormai da un mese. Resisi conto di non poter resistere così a lungo, gli assediati tentano una sortita, e una vera e propria battaglia viene combattuta all'ombra delle mura. Vedendosi quasi sconfitti a causa della supremazia della fanteria tedesca, gli assediati chiedono di risolvere la questione mediante tre duelli. La vicenda è vista dagli occhi di Francesco, giovane soldato di ventura, e di Maria Costanza, vivandiera di una delle compagnie che assediano il castello.

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Sangue. Era dovunque. Impregnava il terreno, e i farsetti dei fanti. Si stagliava sui lucenti pettorali d’acciaio dei sergenti, e di chi se li poteva permettere. Scorreva nelle vene dei sopravvissuti e fuoriusciva dalle ferite.
La battaglia era stata un crescendo di furia e fragore. Gli spari delle bombarde, lo scontrarsi delle armi, le grida di ordini di artiglieri e comandanti colmavano l’aria sì che la morte giungeva nel caos, e non si riusciva a udire nemmeno il proprio ultimo respiro.
Ora invece, un silenzio irreale permeava il campo. Il bianco fumo degli spari accennava a diradarsi ma l’odore della polvere nera, dolciastro come la morte, restava. I soldati, da ambo le parti, cominciarono a rialzarsi. La situazione era in parità: respiravano pesantemente per l’ansia, la fatica, il dolore e la morte sempre presente.
Si rialzarono e, a un secco ordine di un sergente, ripresero le loro posizioni.
Francesco si trascinò in fondo alla schiera, all’estrema destra, trovandosi quindi su un leggero innalzamento del terreno erboso.
Il mercenario si reggeva allo spadone, alto quasi quanto lui, e cercava di respirare. La stagione non era particolarmente calda, ma il sudore dello sforzo gli imperlava la fronte, e si scostò una ciocca bionda di capelli scomposti dal volto con la mano coperta da un pesante guanto d’arme.
I capitani dei differenti eserciti si parlavano a voce alta in modo che tutti potessero sentirli, ma lui già supponeva la natura del loro discorso.
Gettò uno sguardo verso il limitare del campo alle sue spalle, dove le vivandiere attendevano solo un ordine per venire a dissetarli, occuparsi dei feriti e derubare i morti.
Il sergente di una compagnia di ventura a cui erano stati affiancati ordinò alle donne di farsi avanti.
Nello stesso istante, fu deciso come risolvere la battaglia. Tre campioni da ogni schiera si sarebbero affrontati.
Francesco si sporse abbastanza per vedere due uomini in armatura completa affrontarsi con pesanti spadoni nello spiazzo erboso tra i due eserciti.
Incitamenti iniziarono a levarsi dalle due schiere, e si unì a quelle grida.
Per un istante cercò di catturare con gli occhi le figure delle vivandiere che, percorso il prato, ora stavano dissetando i soldati, in una come nell’altra armata.
Prima che sarebbero arrivate a lui, seguendo la gerarchia militare, avrebbero già finito l’acqua, come ogni volta.
Trasse un profondo respiro, e attese.
Il suo sguardo tornò a posarsi sui due combattenti.
Con un grido, uno dei due si avventò con un fendente, e l’altro reagì opponendovi la sua spada. Quest’ultimo faticava sempre di più a opporsi alla forza straordinaria del suo avversario, al punto che dovette portare una mano sull’altro estremo della lama, usando la spada quasi come se fosse un bastone.
Questo, e un ultimo sforzo, gli bastarono per ributtare indietro l’altro.
La situazione era rimasta invariata, entrambi i due ansimavano e si guardavano, camminando in cerchio come belve intente a studiarsi.
Poi si scontrarono nuovamente.
Francesco trattenne il respiro quando il loro uomo schivò all’ultimo minuto un colpo portato in orizzontale, e quasi scivolò sull’erba, resa infida dall’umidità.
Un errore così poteva essere fatale, e non c’era uomo in quel campo che non lo sapesse. Ringhiò infuriato, ora era il suo momento di lanciarsi all’attacco.
Cercò di colpire il nemico con un fendente dall’alto, da sinistra, ma questi parò il colpo.
E fu abbastanza rapido per estrarre dalla cintura uno stiletto, cercando di infilzarlo alla base del collo. L’altro si spostò per difendersi quanto poteva, torcendo il collo di lato, ma era troppo tardi. La punta acuminata dello stiletto trovò spazio nella sua carne, e l’uomo cadde nel sangue.
La truppa nemica si lasciò andare a una serie di esaltazioni, mentre il vincitore sollevava la spada trionfante.
Un paio di uomini vennero a portare via il cadavere.

Poi venne il momento in cui due leggeri, armati di spada e scudo tondo di metallo, incrociarono le loro lame.
Francesco sapeva cosa sarebbe successo di lì a poco. L’ansia dell’aspettativa gli bruciava in gola, insieme alla sete, sì che gli pareva che tutta la polvere del campo avesse trovato posto oltre le sue labbra.
Ma, come ogni volta, sarebbe stato pronto.
Un gesto soltanto, il suo continuo scostarsi i capelli dal viso, tradiva la sua ansia e, in certa misura, curiosità e impazienza.
Non c’era modo di ricacciare indietro tali sentimenti, esattamente come non c’era modo di sistemare la sua chioma bionda, inizialmente liscia e che tendeva ad arricciarsi sulle spalle in modo quasi voluttuoso.
I suoi occhi osservavano i due contendenti, ma non li vedevano davvero. La sua mente era altrove, e ogni tanto scrutava le file avversarie.
Fu come un brusco risveglio udire le grida d’ovazione per la vittoria, questa volta ottenuta da loro.
<für dem Kaiser!> Esclamarono gli alleati tedeschi, sbattendo contro il terreno le alte picche.
Un duello in mano avversaria, uno in mano loro.
L‘ultimo scontro sarebbe stato decisivo, e Francesco sapeva che era il suo momento di scendere in campo. L’ordine del suo comandante non lo sorprese minimamente.

Maria Costanza passava le dita sul disegno geometrico che decorava la brocca d’acqua che portava in mano. Quando erano state chiamate a dissetare i soldati, lei era rimasta di guardia alle attrezzature, insieme ad altre donne e agli artiglieri. Ma ora erano tutte tornate, e anziché recarsi al campo per fare di nuovo provvista d’acqua, avevano deciso di attendere e osservare le sorti dei duelli. In caso di vittoria avrebbero preso possesso del castello, e in caso di sconfitta si sarebbero dovuti ritirare, quindi non era il caso di allontanarsi troppo.
Alcune di esse stavano prestando le prime cure ai feriti, sebbene la maggioranza di essi si trovasse ancora sul campo. Ma finché non sarebbe arrivato l’ordine non si sarebbero mosse. C’erano le tedesche, con i loro cappelli piumati e ornati da tante piccole figure in metallo, e gli abiti chiusi da lacci colorati, intente a conversare, e ogni tanto indicavano verso le schiere.
Si mise anche a lei a osservare, e con una trepidazione insolita, cercando di scorgere qualcosa dei duelli, ma le file di armati le coprivano completamente la vista. Le parve però di riconoscere la figura in piedi sulla destra, ce n’erano pochi con il farsetto viola, ed era quasi certa di non sbagliarsi.

Portò la sua lunga spada davanti a se e osservò il suo avversario. Sapeva che in fondo era come lui, era un soldato, un uomo che respirava, sudava, temeva. Per questo non rifletteva mai prima di uno scontro. Se l’avrebbe fatto, l’idea di dover uccidere l’avrebbe distrutto. Ma era un mercenario. Lo pagavano per quello. Non si poteva permettere tali sensibilità.
I suoi compagni lo acclamavano, ma lui non distinse le parole. Era già concentrato.
Strinse i pugni attorno all’elsa della spada.
Fu il suo avversario ad attaccare per primo, con un fendente dall’alto, da destra verso sinistra.
Francesco si spostò di lato per parare, e quando le due lame si toccarono oscillarono come fronde al vento, piegandosi a causa dell’estrema lunghezza e flessibilità da cui erano caratterizzate.
Cercò nuovamente di attaccare, colpendolo in orizzontale, sempre da destra.
Lui si spostò, inarcando la schiena e portando le braccia verso l’alto, al punto che tutta la sua figura divenne un’elegante mezzaluna. La lama della sua flamberga era invece rivolta verso il basso, perpendicolare al suolo. Con una torsione di tutto il corpo si piegò verso destra fino a cercare di colpire il suo nemico, ma egli riuscì a fermare il colpo all’ultimo istante. Le lame vibrarono nuovamente. Per un istante si osservarono; negli occhi castani di Francesco e in quelli azzurri dell’uomo dal farsetto blu ardeva lo stesso fuoco.
Con un brusco movimento si separano, e Francesco si spostò per attaccare da destra. Il nemico parò e cercò di colpirlo, ma prese un eccessivo slancio in avanti. Allora il ragazzo lo colpì coi gomiti e con il pomolo della lama sulla schiena, facendolo finire a terra.
Fu quanto gli piantò la spada nel fianco che la sua mente, che prima non vedeva che il suo avversario e il terreno, tornò ad aprirsi alle normali percezioni. E la prima cosa che fece fu estrarre la spada, e pulirla dal sangue.
Aveva vinto.
Gli si avvicinò il conestabile, che lo riempì di elogi e gli promise una gratifica speciale, quando avrebbero diviso il bottino.
I comandanti delle varie milizie di mercenari vincitrici si misero d’accordo sul da farsi, finché uno di loro, portavoce del loro committente, fece un annuncio.
<uomini, il castello è nostro!> Gli risposero grida d’entusiasmo.
<gli uomini, i fanciulli e i vecchi saranno fatti prigionieri. Le donne, saranno lasciate a voi, ma non toccate quelle ricche o nobili. Con quelle guadagneremo parecchio. Noi ci accorderemo sulle divisioni del bottino, che sarà grande per tutti, perché tutti vi siete battuti con coraggio e valore.>
<liberi!> Ordinò un’altro ai suoi, e gli altri gli fecero eco.
Lì gli armati si divisero. Alcuni prestarono assistenza ai compagni feriti, almeno nel trasportarli al campo, dove altri vi tornarono per deporre le lance, ma i più si diressero direttamente al castello.

<vieni con noi?> Domandò Clarissa, una delle vivandiere.
<io preferirei.. controllare una cosa. Non abbiamo ordini particolari, no?>
Rispose.
<no, nessuno. Và e divertiti, se vuoi.> Le prese la brocca, facendole un cenno col capo. Lei si voltò. Il suo sguardo attraversò il prato dove si era combattuto fino al bordo delle mura in prossimità della porta. Lì vicino, poggiato proprio a quel muro.
<ma fai attenzione.>La ammonì Clarissa, ora con sguardo serio.
<naturalmente.> Costanza le rispose con un gran sorriso, e indicò la daga che portava al fianco.
Poi, confusa tra la piccola folla di uomini e donne che si preparava a entrare nella rocca, ora che era completamente in mano loro, si diresse verso la porta.
Il sole stava tramontando, e la sua luce le arrivava dritta negli occhi, così si riparò con la mano, mentre con l’altra teneva un bordo del vestito. Provava una strana sensazione, che non sapeva spiegare a sé stessa. Oltrepassò alcuni tedeschi e passò dal terreno erboso alla strada. I suoi passi sollevavano della polvere, e smuovevano bianchi ciottoli.
Le parve di essere giunta alla porta con un’incredibile velocità, quando si trovò davanti a Francesco.
Restò immobile, a testa bassa. Quasi si sentiva stupida.
Aveva sistemato un lembo del vestito alla cintura, in modo che le fosse più facile camminare, e così si vedeva parte della tunica bianca che vi portava sotto. Con un gesto imbarazzato lo riportò alla posizione originaria. Osò appena alzare lo sguardo, e il sorriso del soldato di ventura la rincuorò, e sorrise di rimando. Era un sorriso semplice, quasi d’amicizia, ma qualcosa le diceva che forse, quella notte non avrebbe dormito sola.

I suoi compagni erano andati alla rocca. Lui, con la scusa di andare a sorvegliare il campo, aveva finto di allontanarsi ma era rimasto accanto alla porta. Non sapeva nemmeno perché l’avesse fatto.
Poi la vide arrivare, e comprese.
C’era qualcosa per cui non poteva fare a meno di fissarla. Forse perché la luce del sole che ormai stava tramontando la illuminava in maniera splendida, facendo risaltare il biondo di quelle ciocche che le uscivano dal lembo di stoffa bianca che portava attorno alla testa.
Osservò le sue mani ridistendere il vestito blu, e trovò che, di tutte le vivandiere che aveva visto in quelle settimane di assedio, a nessuna quel colore stesse così bene. Quando alzò la testa poté vedere che era lo stesso dei suoi occhi. C’era qualcosa, in quel suo timido modo di sorridere, nel modo in cui portava la tunica bianca che le lasciava scoperte le spalle rese scure dal sole, che la faceva sembrare più giovane di quanto non fosse, e soprattutto generava intorno a lui un’atmosfera irreale. Quel qualcosa che gli faceva pensare che forse quella notte non avrebbe dormito solo.
 
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